Luca_cordero_di_Montezemolo

Luca_cordero_di_Montezemolo

Luca di Montezemolo – Discorso all’assemblea di Confindustria 2005

Autorità, Colleghi, Signore e Signori,

in questo Auditorium, che rappresenta uno dei simboli della creatività italiana, vedo tante persone determinanti per i destini del nostro paese.

L’economia italiana attraversa la stagione più difficile dal dopoguerra: non solo per la lunga catena di dati negativi, ma soprattutto perché sembrano smarriti lo spirito e la tensione collettiva degli anni migliori e spesso perfino le basi della convivenza civile.

Confindustria aveva invano lanciato l’allarme diversi mesi fa. Ma molti hanno voluto negare l’evidenza e oggi siamo in recessione.

Gli imprenditori vivono un momento amaro, sono consapevoli del loro ruolo ma anche delle loro responsabilità. Non intendono attardarsi in uno sterile lamento di fronte alle difficoltà attuali e, come detto l’anno scorso, si sono veramente rimboccati le maniche.

Ora è indispensabile che tutti facciano altrettanto. Servono scelte urgenti, coraggiose, probabilmente impopolari ma che sappiano fronteggiare l’emergenza senza perdere di vista la costruzione del futuro. E di questo parleremo più avanti.

Dobbiamo comunque evitare che l’Italia resti schiacciata dal presente. I problemi di oggi vanno affrontati individuando gli obiettivi per il domani.

Schiacciati dal presente, divisi sul passato, rischiamo di prestare poca attenzione al nostro futuro. Serve uno sforzo di visione. Serve una capacità di leggere i fenomeni per costruire il domani. Serve una volontà di emergere dal quotidiano: non per sfuggirlo, ma per poterlo affrontare meglio, con una mappa che indichi una strada.

Sta qui il senso di una politica alta, che abbia un progetto per il domani e che sia vicina ai veri problemi della gente.

Dove vogliamo che sia l’Italia tra dieci anni? L’anno scorso dicemmo che era il momento di restituire al Paese parte di quello che avevamo ricevuto. E con il difficile lavoro di quest’anno abbiamo cercato di farlo. Adesso ci chiediamo: cosa siamo noi disponibili a fare per il futuro dell’Italia? Dove va il nostro paese? Quali sono i suoi desideri? Quali i sogni dei nostri giovani? Quali le aspirazioni dei lavoratori? Quali i progetti delle imprese?

Lontana è da noi l’idea che debba esserci qualcuno o un centro che programmi e diriga le azioni dei singoli. Ma il nostro futuro è anche il prodotto di ciò che la classe dirigente saprà far emergere oggi. E’ arrivata l’ora delle grandi scelte.

Dobbiamo rimettere in funzione i meccanismi di selezione, con due parole chiave: la trasparenza e soprattutto la meritocrazia.

La meritocrazia è un valore di cui abbiamo estremamente bisogno, nelle imprese come nella società, nei servizi come nella pubblica amministrazione, nella scuola come nelle università. Ed è bene che questo valore sia trasmesso ai più giovani.

Questo non significa danneggiare i più deboli, che vanno tutelati, ma creare le condizioni per fare avanzare i migliori affinché siano protagonisti negli scenari del futuro.

Ma chi elabora questi scenari? Chi si impegna politicamente a far convergere verso di essi le forze del Paese? Chi si confronta con quanti, in tutto il mondo, stanno ponendosi gli stessi problemi?

Noi vogliamo essere costruttori del futuro. Non ci rassegniamo a vivere il giorno per giorno. Crediamo che l’Europa debba far parte di quelle istituzioni mondiali che stanno operando per il domani. Un mondo senza la voce dell’Europa sarebbe più povero di idee e di cultura.

In questo mondo anche l’Italia deve avere un ruolo importante. Non vogliamo chiuderci per sopravvivere in dimensioni provinciali, ai margini della storia.

* * *

Quale sarà, nei prossimi dieci anni, la struttura economica del mondo e quale la posizione dell’Europa e dell’Italia? Il futuro è aperto, ma certe tendenze si leggono già oggi.

Il baricentro economico mondiale si sta spostando. Alla metà di questo secolo, Russia, India, Cina e Brasile saranno la più imponente forza economica mondiale. Produrranno una ricchezza pari a quella attuale dei sei paesi più sviluppati. Nel 2050 solo Giappone e Stati Uniti resteranno tra i primi sei paesi al mondo nella classifica stilata in base al prodotto nazionale lordo. Regno Unito, Germania, Francia e Italia si collocheranno tra il settimo e il decimo posto.

Ai nostri livelli di produttività basterebbero 500 milioni di cinesi per generare l’intero PIL mondiale di oggi. Si dimentica però che con la dimensione attuale del PIL metà della popolazione del pianeta vive con meno di 2 dollari al giorno.

C’è uno spazio enorme di bisogni da coprire e la sfida è dimostrare concretamente che lo sviluppo può andare di pari passo, nell’economia globale, con la giustizia e la dignità umana.

C’è posto per tutti sul pianeta. Il problema, allora, è quello di gestire la transizione. È un processo che va governato e per questo servono istituzioni sopranazionali forti e capaci.

E serve un’Europa vera, che funzioni, perché solo l’Europa avrà, in questo mondo futuro, una dimensione che potrà competere con gli altri giganti economici.

Per questo è importante interrogarci su come sarà l’Europa tra dieci anni. Io non sono pessimista. Non vedo un declino inesorabile del Vecchio Continente. Lo temo, solo se prevarranno le logiche nazionalistiche e di conservazione. Lo escludo, se sapremo mantenere alti gli obiettivi e forte la volontà di farcela.

L’Europa non sarà né una nazione centralizzata, né uno Stato Federale nel senso classico del termine. Sarà una nuova entità sopranazionale, la cui costruzione richiederà tempo, ma il cui risultato sarà copiato dal resto del mondo. Tutti sappiamo che in un mondo globale lo spazio per le singole nazioni si restringe.

Dobbiamo andare avanti. La strada è tracciata: 25 nazioni, con lingue, culture, abitudini, religioni differenti si stanno mettendo insieme e sostituiscono le leggi agli eserciti per risolvere le loro questioni.

Noi stiamo realizzando un sogno, un’utopia: la costruzione di una nuova istituzione politica fondata non sull’unità di eguali, ma sul rispetto della diversità delle genti e della loro autonomia. Non dobbiamo fare l’errore di credere che l’Europa sia materia vecchia e scontata.

I giovani che sembrano disinteressarsi dell’Europa sono molto più europei di quanto possa sembrare. Per loro l’Europa c’è già: nella loro vita quotidiana, nei loro affetti, nelle loro ambizioni di studio e di lavoro, nelle loro mete di vacanza, nella loro cultura e nei momenti di svago.

Ma sulla costruzione di questa Europa vedo in giro troppi scettici. Troppi governi preoccupati più di farsi rieleggere a casa propria che di costruire una nuova casa per il futuro. Troppi politici avvezzi a scaricare sull’Europa responsabilità nazionali. Non è il Patto di Stabilità la causa della stagnazione economica.

Noi sappiamo che non è la spesa pubblica a far crescere l’economia, così come sappiamo che non può essere lo Stato il motore dello sviluppo. Gli stessi Stati Uniti sono cresciuti molto di più negli anni Novanta, quando avevano un bilancio pubblico in avanzo, piuttosto che in questi anni in cui hanno generato squilibri di finanza pubblica che peseranno negativamente sulle economie di tutto il mondo. E in Europa i paesi che crescono di più sono quelli che hanno le finanze pubbliche in ordine.

Se continuiamo a dire che è l’Europa la causa dei nostri mali, distruggiamo l’Europa e aggraviamo i nostri mali. L’Italia, per crescere, ha bisogno dell’Europa. E deve crederci.

Il bilancio europeo è misero rispetto a quelli nazionali. Va aumentato e mirato verso il futuro. L’Italia deve battersi per accrescere il bilancio europeo e affinché le risorse siano destinate

all’innovazione, alla ricerca, ai grandi progetti infrastrutturali: ossia le cose che renderanno competitiva l’Europa dei prossimi dieci anni, non quelle che difendono gli interessi e gli assetti del passato.

L’agenda di Lisbona non deve rimanere né uno slogan né una chimera.

Con queste nuove risorse noi dobbiamo costruire il bilancio 2007-2013, che è già in discussione in Europa. E’ una partita delicata: se il bilancio europeo rimarrà nelle dimensioni attuali o, peggio, se verrà compresso, le forze della conservazione prevarranno. A nostro danno.

Il nostro paese è da anni un contribuente netto del bilancio comunitario. Possiamo a buon diritto affermare che la destinazione e la ripartizione di questi fondi rappresentano anche elementi di chiarissimo interesse nazionale.

Le iniziative dell’Unione in tema di competitività e la conferma della politica di coesione economica e sociale sono fondamentali per l’Italia e il Mezzogiorno. Richiedono un rafforzamento delle risorse del bilancio comunitario e un loro intelligente orientamento.

E’ questo un terreno dove il governo, ma non solo, deve dare una prova concreta di influenza sulle decisioni europee.

In ogni caso, l’Italia deve contare di più in Europa: e anche questa è una responsabilità soprattutto nostra. Nei posti che contano, gli 7

italiani sono rari. E non si tratta di fare ogni tanto la voce grossa per avere qualche posto in più. Si tratta invece di valorizzare e investire, anche oggi, sui pochi rappresentanti che abbiamo. Perché sentano di avere il supporto del loro paese.

Va costruita una classe di funzionari che sappiano stare indifferentemente in Italia e nel mondo. Che siano autorevoli e portino la nostra cultura negli organismi internazionali.

Fatta l’Europa, dobbiamo fare gli europei.

* * *

Perché l’Europa cresca e produca ricchezza, è necessario che il principio della libera concorrenza trovi piena attuazione.

La concorrenza non deve essere né un mito né una religione. Ma il modo per dare a tutti maggiori opportunità e per far emergere i migliori. Se sapremo far emergere i migliori, allora saremo competitivi.

Dico questo anche adesso, in presenza di diffuse e comprensibili paure che derivano dall’esplodere della concorrenza cinese nel mondo. Ma la paura è sempre una cattiva consigliera. Invece dobbiamo reagire. Siamo convinti che debbano essere messe in pratica tutte le azioni necessarie in casi di crisi settoriale e a fronte di concorrenza sleale.

L’Europa ha tutti gli strumenti: non perda tempo e li usi rapidamente.

Il gioco della concorrenza è valido solo se tutti rispettano le regole, che non devono imporre fardelli ai paesi poveri, ma combattere le frodi, le falsificazioni, le illegalità e gli aiuti pubblici: in una parola, la concorrenza sleale.

La libera concorrenza non è la giungla, ma è un insieme di regole che vanno rispettate. Nel nostro paese, grazie anche alla spinta dell’Europa e delle nostre autorità competenti, la cultura della concorrenza è cresciuta. Occorre insistere su questa strada.

Non dobbiamo, al contrario, riscoprire vecchi dirigismi. Né riesumare enti pubblici pronti a intervenire su tutto né inventarne di nuovi.

Vedo con preoccupazione la strisciante invadenza dello Stato nell’economia attraverso l’attivismo di nuovi soggetti che richiamano alla mente la vecchia GEPI. Osservo con disagio le resistenze degli enti locali che proteggono le loro aziende di energia, acqua e gas e ostacolano i processi di liberalizzazione.

Concorrenza e mercato significano rispetto delle regole e autorevolezza delle istituzioni. Una autorevolezza che, purtroppo, ho visto ridursi in queste settimane.

Dopo le crisi finanziarie di alcune aziende italiane, nell’ormai lontano 2003, non siamo ancora riusciti a varare una buona legislazione sul risparmio. E questo è molto grave, ma anche significativo.

Poi si è scatenata una malintesa battaglia per l’italianità delle banche, fatta di dichiarazioni intempestive da parte di politici italiani e non solo italiani, in occasione delle offerte pubbliche di acquisto su due banche nazionali.

Ne sono seguiti incontri più o meno riservati presso le autorità, manovre incrociate, emersione di nuovi soggetti e di capitali misteriosi, rastrellamenti di azioni sul mercato, scalate clandestine, sospetti e accuse di insider trading, denunce di azioni di concerto, interventi della magistratura. Niente di più lontano da produzione e lavoro.

Non è stato un bello spettacolo. Non ci abbiamo guadagnato nulla. Spero ancora che non abbiamo perso troppo, soprattutto per quanto riguarda la nostra immagine sui mercati esteri. Le offerte pubbliche di acquisto sono azioni trasparenti previste e regolate dalla legge. Chiunque vuole acquisire la proprietà ha il dovere di lanciare un’OPA. E bene ha fatto la Consob a ribadire questo principio con la sua decisione.

I fatti di queste settimane ci dicono che sono necessarie le regole e le autorità capaci di farle rispettare. Con il rispetto delle regole

cresce la cultura della concorrenza. Con autorità professionali e indipendenti si garantisce la correttezza del mercato.

Occorre far crescere la concorrenza nel nostro paese. Sui mercati dei beni, dove già è forte da anni, ma dove è necessario vegliare sulle pratiche distorsive. Sul mercato dei servizi pubblici e in concessione, dove è più difficile, ma dove occorre investire per avere minori prezzi e qualità del servizio elevata. Non possiamo pagare l’energia più che negli altri paesi europei.

L’Italia resta fra le realtà più chiuse anche per le professioni: da noi generano costi elevati per i consumatori e le imprese, altrove sono un fattore dinamico per l’economia.

La riforma delle professioni, concepita per immettere un po’ di concorrenza in questo settore, è stata prima snaturata al punto di introdurre nuove protezioni e poi accantonata. Tutto resta come prima: e non è un bene, perché perdiamo competitività internazionale anche in questo settore.

E si rafforza la convinzione che l’Italia sia il regno delle corporazioni intoccabili. Soprattutto quando si avvicinano le elezioni.

La concorrenza è un mezzo per migliorare il Paese, attraverso un processo meritocratico che deve cominciare dalla scuola e dall’università.

Abbiamo bisogno di un sistema scolastico – per il quale, va detto, si sta finalmente lavorando – che recuperi rapidamente i ritardi accumulati nei confronti di altri paesi dell’OCSE. E sia capace di accrescere efficacemente il nostro patrimonio di istruzione e intelligenze. Questo sistema deve valutare e premiare gli studenti e i professori più validi.

Un paese dove l’istruzione e la preparazione siano più diffuse e continue lungo l’arco della vita professionale, e dove la selezione dei migliori sia una regola sin dalla scuola, è un paese che non teme la concorrenza. Anzi, che fa della concorrenza la via per migliorare continuamente.

Vale nella scuola quello che deve valere nelle nostre imprese. Anche i nostri centri di eccellenza universitaria devono fare un grande sforzo verso l’internazionalizzazione. Un sistema che sa promuovere e selezionare non lascia indietro nessuno, perché crea gli spazi dove tutti possono trovare la loro collocazione.

Queste riforme devono vedere l’impegno congiunto di tutti i soggetti vitali del Paese. E di tutti i soggetti istituzionali coinvolti, a cominciare dalle regioni. Il progetto deve essere fortemente integrato da ammortizzatori sociali moderni: un sistema di indennità di disoccupazione combinato a processi di formazione che devono accompagnare i lavoratori lungo tutto l’arco della vita professionale.

* * *

Sarà la concorrenza a ridisegnare la struttura produttiva del nostro paese e a creare nuove opportunità di lavoro e di impresa.

Non possiamo decidere a tavolino quali settori e quali prodotti domineranno il mercato tra dieci anni. Ma sappiamo che, se l’Italia sarà più istruita e più preparata, se avrà investito in centri di ricerca e avviato progetti per migliorare il nostro territorio e la vita di tutti i giorni, allora sarà anche presente nei nuovi settori.

L’Italia che verrà sarà popolata da un numero di immigrati superiore all’attuale, perché i maggiori arrivi si sommeranno al calo demografico della nostra popolazione.

Abbiamo bisogno di integrare queste popolazioni e non possiamo aspettare che i nuovi problemi sorgano per affrontarli. Sarebbe troppo tardi. La seconda generazione di immigrati porrà problemi diversi e forse maggiori della prima, perché costituita da persone nate sul nostro territorio, che vorranno giustamente avere tutti i diritti e che non si accontenteranno solo dei posti di lavoro rifiutati dagli italiani.

L’integrazione di domani si prepara oggi, sapendo che il percorso dell’immigrazione finisce con i diritti di cittadinanza e va considerato come un’opportunità.

Dobbiamo aumentare la nostra capacità di adattamento al futuro. E noi sappiamo già da ora quale è il settore che più deve adattarsi. È quello dei servizi.

I servizi sono i due terzi del PIL. Rappresentano oggi un costo per le altre imprese, mentre in realtà potrebbero essere un traino. La concorrenza nei servizi è bassa in Italia e in Europa. Aver fatto fallire la direttiva sulla liberalizzazione dei servizi, evento passato quasi inosservato nel nostro paese, rappresenta purtroppo un grave errore.

Parliamo di mercato interno europeo come se fosse già compiuto e non ci rendiamo conto che abbiamo liberalizzato solo il commercio dei beni, che rappresenta meno di un terzo del PIL.

Non ci sarà un vero mercato interno senza la liberalizzazione dei servizi. E senza questo mercato sarà difficile crescere.

Gli Stati Uniti crescono più dell’Europa perché cresce la loro domanda interna. E questo perché i servizi sono liberi. I servizi hanno un forte contenuto di manodopera locale e un elevato consumo di beni industriali moderni. Basti pensare alla sanità, che consuma prodotti ad alta tecnologia. Ma lo stesso vale per il turismo, lo spettacolo, i trasporti, l’educazione.

Il consumatore moderno compra beni industriali attraverso l’uso dei servizi. Se i servizi non sono liberalizzati, non cresce la domanda dei consumatori, non cresce la domanda di beni industriali, non crescono la ricerca e l’innovazione che sono implicite nei servizi moderni, organizzati ormai come vere imprese di natura industriale.

La visione del futuro del nostro paese deve comprendere una cura del territorio che è un’importante risorsa ma anche una grande opportunità imprenditoriale.

Modernizzare le nostre città, ricostruire le nostre periferie, valorizzare il nostro patrimonio artistico, dotarsi di una rete di comunicazioni e di trasporti adeguati alla domanda di mobilità, gestire con un minimo di efficienza la raccolta e la distribuzione dell’acqua: sono tutti obiettivi che possono far crescere nuovi imprenditori, nuove aziende, nuove professionalità e nuovi servizi.

La domanda di moderne infrastrutture è oggi ineludibile. Basta guardare all’esperienza della Spagna che ha saputo utilizzare al meglio i fondi europei, facendo delle infrastrutture un motore dello sviluppo. Ne dovrà derivare un potenziamento dell’offerta di logistica, necessaria per un Paese che resta manifatturiero ma che non potrà avere sul territorio tutte le fasi delle produzioni.

Il traffico di merci Europa-Asia via Suez ha già superato quello Europa-USA. In quanto terminale naturale di questi flussi l’Italia, e in particolare il Sud, può assicurarsi valore aggiunto logistico e attività di perfezionamento delle merci.

Ma l’offerta di logistica implica anche investimenti nell’intermodalità, a cominciare dai porti. E poi innovazione organizzativa e tecnologica affinché si trasformi da onere per le imprese in valore aggiunto per tutti. Ciò sarà molto importante per l’impatto sui costi di trasporto, oggi troppo alti, e per il turismo.

Lo dico forte: serve un grande progetto per il turismo, per farlo uscire dalla crisi in cui si dibatte e per farne un vero protagonista dello sviluppo nei prossimi anni, un protagonista a dimensione industriale.

Natura, stile di vita e opere d’arte non bastano più. Senza promozione coordinata e centralizzata del “marchio Italia”, senza prezzi concorrenziali e qualità del servizio, senza imprenditorialità siamo destinati a perdere altre posizioni.

Non è solo il recente sorpasso della Cina che ci preoccupa, ma il fatto che dal 2000 perdiamo turisti mentre aumentano negli altri paesi europei. E questo nella più totale e generale disattenzione.

Il turismo è una delle più grandi sfide che abbiamo davanti. Non è l’unica. Ma tutte le occasioni si coglieranno meglio con un sistema finanziario adeguato.

Le banche italiane hanno fatto grandi passi sulla strada della modernizzazione. Nessuno di noi dimentica da dove sono partite, solo pochi anni fa. Ma il processo di crescita attraverso fusioni e concentrazioni si è fermato. La via della crescita non è mai finita per nessuna impresa, a maggior ragione per le banche, che debbono riprendere quel processo che si è interrotto.

Le banche sono imprese per le imprese. E noi vogliamo banche italiane più grandi e più forti, proprio come vogliamo industrie più

grandi e più forti. Non c’è differenza. Ma anche nel mondo del credito la concorrenza deve diventare protagonista.

Il nostro mercato finanziario si sta aprendo alla concorrenza estera. Questo è un bene. Auspichiamo che avvenga lo stesso negli altri paesi e che le nostre banche siano protagoniste in Europa e nel mondo.

E’ opportuno che accanto a banche italiane controllate da banche estere, ci siano banche italiane più grandi che controllino banche straniere. Solo la presenza delle une e delle altre aiuterà la competizione in Italia e potrà accompagnare al meglio le nostre imprese impegnate sui mercati mondiali. E in ogni caso, quando si tratta di banche europee sarebbe meglio non considerarle straniere.

* * *

Come per gli istituti di credito, anche per le imprese il controllo deve coincidere con la responsabilità di farle crescere.

Può accadere che la salvaguardia delle nostre imprese passi per la diminuzione del peso della partecipazione familiare al capitale dell’azienda. Non sempre, naturalmente, ma può accadere.

E quando la crescita è necessaria per il futuro dell’impresa io dico che dobbiamo sempre scegliere la strada dello sviluppo, anche se questo vuol dire non essere più soli alla guida dell’azienda.

Non si tratta di rinunciare a nulla di ciò che l’imprenditore ha creato o ha contribuito a far crescere. Ma di chiarire i ruoli reciproci, di regolare i rapporti tra controllo e gestione, di mettere a punto moderni sistemi di governance.

Oggi può accadere di dover fare scelte di questo tipo per essere competitivi sul mercato globale e garantire così la continuità e il futuro di quel grande patrimonio che sono le nostre aziende familiari.

L’Italia sarà sempre il paese delle piccole imprese, ma le piccole imprese dovranno essere più grandi e organizzate di quelle del passato. Questo non può essere un processo lasciato solo all’iniziativa generosa dei singoli.

Alle piccole imprese dico: Confindustria è al vostro fianco nell’impegnativo cammino della crescita e dell’internazionalizzazione, su cui quest’anno abbiamo insieme lavorato molto.

Nel corso degli anni abbiamo perduto più di un grande gruppo multinazionale. Non sarà facile inventarne di nuovi. Dobbiamo spingere quelli che abbiamo a fare da traino alle piccole e medie imprese nel grande mercato dell’economia globale.

E puntiamo moltissimo su imprese multinazionali di medie dimensioni che hanno successo e stanno ulteriormente crescendo perché molto focalizzate e specializzate.

Vedo qui oggi molti protagonisti di questa realtà. Mi auguro di cuore di vederne sempre di più.

Occorrono una volta per tutte strumenti fiscali e finanziari mirati a far crescere le dimensioni delle nostre imprese, favorendo fusioni e concentrazioni perché siano più competitive.

Crescere è la nostra missione. Questo deve essere anche l’obiettivo del Paese. A questo fine devono, anche, essere ridisegnati il fisco italiano e la macchina amministrativa.

Il fisco non è solo pesante, ma è anche mal distribuito. Premia più le importazioni che il lavoro nazionale. Premia, soprattutto, più la rendita che la produzione. E’ questo che si vuole?

Mi rendo conto che sono temi delicati e non penso che possano essere risolti con un colpo di bacchetta. Ma credo sia necessario affrontarli e fare di essi un tema della nostra politica industriale. Nel mondo si sta spostando il carico fiscale dall’imposizione diretta a quella indiretta. Così facendo, si sgrava il lavoro nazionale e si riequilibra il peso del prelievo nei confronti di paesi concorrenti, ove i carichi fiscali e contributivi sono decisamente più leggeri.

Noi che abbiamo un elevato peso fiscale e un carico contributivo sul lavoro nazionale che non ha eguali in Europa, dovremmo seriamente pensare a questa soluzione.

Si deve ridurre il cuneo fiscale e spostare parte del carico dal costo del lavoro nazionale alle imposte indirette, che pesano in eguale maniera sulla produzione interna e su quella importata.

Questa operazione può prendere il via sin da ora. E’ ormai chiaro a tutti che va abolita l’IRAP che grava solo sul lavoro italiano e sul capitale investito nel nostro territorio. Non solo perché ce lo chiede l’Europa.

I dati dimostrano, senza possibilità di smentita, che la crisi pesa sui settori più esposti alla concorrenza internazionale, sull’industria e sul lavoro dipendente. Su quei comparti, cioè, che non possono sfuggire con meccanismi protezionistici o di evasione ed elusione all’urto della concorrenza e della globalizzazione. Comparti che stanno affrontando una trasformazione senza precedenti del modello di specializzazione produttiva per adeguarlo al nuovo contesto dei mercati.

Togliere l’IRAP sul lavoro è urgente per far recuperare competitività.

E’ essenziale che l’intervento sulla componente costo del lavoro avvenga in maniera diretta e proporzionale, senza elementi discriminanti per le imprese industriali e la loro dimensione. Non ripetiamo errori del passato!

Questa operazione va fatta senza pregiudicare i conti dello Stato. Non sta a noi indicare dove tagliare la spesa pubblica per trovare

le risorse necessarie alla competitività. Ma certo sappiamo che lo spazio esiste.

Non vogliamo pagare con più deficit quella tassa che comunque deve essere rimossa.

Il nostro paese ha tanto capitale disponibile e troppe aziende sottocapitalizzate. Stiamo diventando il paese della rendita. In Italia il rapporto tra patrimonio (immobiliare e finanziario) e PIL è pari a otto volte! Il maggior rapporto tra i paesi industriali. La Francia sta dietro di noi e così gli USA. In questa situazione, il valore annuale della rendita si avvicina paurosamente a quello del reddito da lavoro.

Vuol dire che stiamo usando male le nostre risorse. Ma soprattutto mi preoccupa l’insegnamento che da questa cultura della rendita viene ai nostri giovani.

Se le cose stanno davvero così, vale ancora la pena di insistere sui testi ostici delle materie scientifiche? Vale ancora la pena di investire il proprio presente e il proprio futuro nella ricerca, nella sperimentazione, nella grande avventura dell’intraprendere quando il trattamento fiscale e il carico contributivo penalizzano la produzione di ricchezza?

Sono domande che aspettano risposte concrete in tempi brevissimi, per non doverci poi lamentare delle occasioni perdute. Non fateci perdere il gusto e la voglia di fare gli imprenditori!

* * *

Il Paese da tempo non cresce. Il Paese arretra in modo preoccupante in una fase di slancio dell’economia e del commercio mondiale. C’è sfiducia. C’è una sorta di rassegnazione e perfino noi imprenditori sembriamo talvolta smarrire il nostro ottimismo.

Bisogna rivalutare la capacità di produrre ricchezza e la componente rappresentata dal lavoro. Ma la rivalutazione non può essere solo una questione di contrattazione sindacale, come invece sta avvenendo.

Sia chiaro. Noi imprenditori siamo consapevoli delle difficoltà di molti lavoratori, ma anche delle difficoltà delle aziende.

Dobbiamo evitare di fare, noi e voi sindacati dei lavoratori, la fine dei polli di Renzo, che si beccavano ferocemente mentre venivano portati al macello. Noi non vogliamo andare al macello.

Dobbiamo contribuire assieme a fare crescere la competitività delle nostre imprese e a posizionarle su quei segmenti di mercato che consentano profitti e un’adeguata remunerazione del lavoro. Altrimenti, i maggiori salari sarebbero solo l’anticipo di futuri licenziamenti!

Scusate la brutalità delle espressioni. Ma occorre parlare chiaro. Noi non ci sottraiamo alle nostre responsabilità. Serve uno scatto condiviso e adeguato alle difficoltà della situazione. Senza dimenticare che il fattore tempo è determinante.

Auspichiamo che il sindacato ritrovi una linea unitaria e realistica in materia di relazioni industriali per evitare che si interrompa il dialogo con Confindustria. L’esperienza di questi mesi ci dice che per andare avanti nel confronto c’è assoluto bisogno di più visione comune da parte delle confederazioni sindacali.

Mentre noi lasciamo passare i mesi in discussioni estenuanti e senza conclusioni, la situazione del nostro sistema produttivo si deteriora. Anche perché nei paesi nostri concorrenti – e non penso solo alla Germania – le aziende e i sindacati stanno adottando terapie assai incisive.

Vorrei dire a tutti, anche agli amici del sindacato, che nell’economia globale le politiche del continuo rinvio non hanno senso.

E’ arrivato il momento di rifondare le relazioni sindacali per sviluppare in maniera moderna il valore dell’impresa e del lavoro. Serve un modello di rapporti adeguato ai tempi per dare prospettive concrete al fatto che capitale e lavoro hanno oggi il grande interesse coincidente di guardare avanti.

Noi di questo siamo stati sempre convinti. E su questa convinzione abbiamo basato la scelta del dialogo e del confronto. Devo però dire con rammarico che al di là delle buone intenzioni un anno è trascorso senza risultati concreti.

Essere tornati a parlarci ha creato un clima migliore che deve però servire a costruire un modello di relazioni davvero collaborativo, nell’interesse di tutti. E certo non vanno in questa direzione piattaforme rivendicative al di fuori di ogni compatibilità e che pretendono di stravolgere unilateralmente le regole del gioco.

Noi imprenditori stiamo comunque lavorando intensamente, cercando di fare la nostra parte. Malgrado tutti gli sforzi è risultato finora impossibile qualsiasi accordo. Abbiamo perciò deciso di preparare un nostro documento sui temi delle relazioni industriali che riteniamo importante e innovativo e che presenteremo come base di discussione.

Chiediamo un confronto di merito e spirito costruttivo. Perché la sfida è veramente impegnativa e i tempi sono strettissimi.

Vorrei citare solo due dati impressionanti. Negli ultimi cinque anni, dal 2000 al 2004, la produttività è aumentata in Germania del 10%, in Francia del 12%, in Italia è diminuita di quasi un punto e mezzo. Negli stessi anni, il costo del lavoro per unità di prodotto in Francia e Germania è diminuito, in Italia è aumentato di oltre il 12%.

Così non si può continuare. Senza scelte immediate e coraggiose il divario tende ad allargarsi. L’OCSE già prevede per il 2005 un incremento del costo del lavoro del 3,9% in Italia contro l’1,3% in Francia e addirittura una riduzione in Germania.

Inoltre il numero di ore realmente lavorate in un anno è fra i più bassi in Europa dove, in media, si lavora oltre 300 ore in meno in un anno rispetto agli Stati Uniti. Questo vuol dire che ogni cinque anni gli Stati Uniti lavorano un anno di più rispetto a noi!

Anche qui, insieme e senza contrapposizioni, è chiaro che abbiamo molto da fare. Senza aumenti di produttività non c’è maggior torta da dividere e riaffiora la pericolosa tesi del salario come variabile indipendente. Questo – lo ripeto – non vuol dire ignorare il disagio di molti lavoratori. Ma si deve innovare e trovare strade compatibili.

Il cuneo fiscale e contributivo – cioè la differenza fra il costo per l’impresa e la retribuzione netta – è in Italia fra i più alti del mondo. Con l’IRAP che grava sul costo del lavoro, per ogni 100 euro di salario netto, il costo per una nostra impresa è pari a 193. Più della Francia, molto di più dei 159 della Spagna e dei 145 del Regno Unito.

Sia chiaro, gli imprenditori non chiedono minori tasse per fare maggiori profitti, ma per essere più competitivi, per investire di più anche in ricerca e sviluppo, per costruire il lavoro e il successo di domani.

E chiedono meno fardelli sull’impresa per non dover continuare a guidare una macchina con una mano sola, in condizioni di inferiorità rispetto ai concorrenti.

Sulle imprese italiane pesano vincoli, gravami e oneri impropri che non hanno eguali nel mondo industriale.

Cambiare tutto ciò è indispensabile per far ripartire gli investimenti, in particolare in ricerca e innovazione. E qui, accanto a un maggiore sforzo del pubblico, si sente il bisogno di un più grande e reale impegno dei privati.

Un paese come il nostro con tasse elevate e servizi pubblici di bassa qualità favorisce solo chi è al riparo dalla concorrenza, trasferendo la ricchezza dai settori esposti alla competizione a quelli protetti. Cresce la rendita o il profitto di chi vive fuori del mercato, a spese dei cittadini che pagano tariffe più elevate.

Questo è il circuito del declino. Un declino che si avverte quando è troppo tardi, perché nel frattempo – come sta accadendo da noi – i settori protetti continuano a prosperare.

Noi non vogliamo cadere in questa trappola. C’è declino solo se non ci sono mete e obiettivi. E le imprese, ve lo assicuro, hanno ambizioni all’altezza dei compiti e non si arrendono. Lo dimostrano le tante, meravigliose aziende di successo e di eccellenza di questi tempi.

Ma occorre che tutto il Paese abbia ambizioni e ritrovi il gusto della sfida. Alziamo lo sguardo verso il futuro. Dove vogliamo essere tra dieci anni?

Dobbiamo riunire il Paese in un grande spirito di ricostruzione. Non perché ci sia stata una guerra con le sue distruzioni ma per i guasti causati nel tempo da troppe omissioni.

Dobbiamo ritrovare quell’impegno e quella capacità di fare squadra che ci hanno consentito di essere oggi tra le nazioni più ricche e più libere del mondo. E i traguardi raggiunti non sono mai assicurati per sempre.

In questo disegno possono giocare un ruolo centrale le imprese e le associazioni che le rappresentano.

Con molte di loro, nell’ultimo anno, è iniziato un tragitto comune che vuole evidenziare il molto che ci unisce rispetto al poco che ci divide, puntando in futuro a mettere ancora più insieme le energie di ciascuno. Sappiamo che i problemi delle imprese sono sempre più gli stessi, a prescindere dalle dimensioni e dal settore.

Un buon lavoro comune è stato fatto, anche con i sindacati, sul Mezzogiorno che è ancora molto indietro e risente dell’apertura mondiale che lo spinge sempre più ai margini dello sviluppo. Per Confindustria il tema del Sud rimane più che mai centrale. Lo deve essere per tutti, maggioranza e opposizione.

Possiamo fare molto, avviando le infrastrutture che mancano e investendo nella qualità delle amministrazioni. Puntando, anche per attrarre investimenti, sulla fiscalità di vantaggio e su strumenti automatici, senza intermediazione politica o amministrativa. Potenziando un turismo integrato con la cultura, l’industria, le comunicazioni, le università. Facendo crescere le imprese meridionali e operando per una loro integrazione con il resto del paese.

Ma abbiamo anche una frontiera che è più trasversale e non coincide con quella del Mezzogiorno. È la frontiera che separa ciò che è lecito da ciò che è criminale. Non possiamo avere alcuna tolleranza. Non dobbiamo scendere a patti. Ipotesi di amnistie sono nocive, come l’esperienza anche recente ha mostrato.

Un impegno sempre maggiore nella lotta alla criminalità e alla corruzione diventa ogni giorno più necessario. Sappiamo che possiamo contare su forze dell’ordine all’altezza dei compiti. A loro, così come ai corpi militari, dobbiamo esprimere gratitudine per l’impegno a tutela della sicurezza in Italia e per le importanti missioni di pace all’estero.

Da Confindustria viene un appello forte a intensificare con tutti gli strumenti la lotta all’evasione fiscale e al sommerso. Non è solo una doverosa battaglia di civiltà, ma lo strumento per una società più giusta e un’economia più competitiva.

Le tasse si pagano, come fanno le imprese, e si devono far pagare. E’ un principio fuori discussione, ma anche la strada fondamentale per ridurre la pressione fiscale e quindi il costo del lavoro.

In Italia il tasso regolare di occupazione è il più basso d’Europa. Un numero troppo esiguo di persone contribuisce alla produzione di vera ricchezza. Nello stesso tempo abbiamo una dimensione abnorme dell’economia sommersa, soprattutto nel Mezzogiorno, che alcune stime collocano intorno al 25% del prodotto interno lordo.

Si tratta di un fenomeno gravissimo, di una vera emergenza nazionale, nei cui confronti non è più tollerabile alcuna indulgenza. Si tratta di concorrenza sleale, basata su abusi ed elusioni di legge, che rischia di penalizzare le imprese sane e corrette che giocano secondo le regole. Si tratta di una colossale quota di ricchezza sottratta al fisco e alla collettività.

Parliamo di quattro milioni di persone che operano al di fuori delle regole e che vanno riconsegnati all’economia trasparente e legale, anche attraverso forme di flessibilità regolata come quelle previste dalla riforma del mercato del lavoro. Ne risulterebbe un mercato del lavoro più equo e coeso e si aprirebbero spazi importanti per abbassare aliquote contributive e fiscali oggi non più sostenibili.

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Occorre ritrovare il senso dello Stato e delle istituzioni.

Confindustria crede fermamente nel ruolo delle istituzioni e sa che senza istituzioni credibili e professionalmente organizzate non è possibile avere un vero libero mercato e un paese civile.

Le nostre istituzioni sono rette da una Costituzione che conserva intatto il suo valore. Può richiedere adeguamenti, ma rappresenta la carta delle regole fondamentali nelle quali tutti gli italiani devono riconoscersi.

Per questo ho visto con rammarico che nella passata legislatura sia stata forzata la mano e si sia varata una riforma approvata solo dalla maggioranza dell’epoca. Per questo vedo con preoccupazione la nuova spaccatura che rischiamo oggi per un’ulteriore e ancor più profonda modifica della Carta costituzionale.

In democrazia ogni cittadino deve sentirsi tutelato, sia che vinca la sua parte sia che vincano altri. Questa è la condizione fondamentale per avere una reale possibilità di alternanza alla guida del Paese. E la tutela del cittadino è affidata alla Costituzione: se essa varia al variare di ogni maggioranza, si perde questa sicurezza.

Possiamo e dobbiamo delegificare, perché tanti atti della nostra vita non necessitano dell’invasione della legge. Nessuno oggi è in grado di sapere quante sono le leggi vigenti in Italia. Un dato è certo. Abbiamo un numero di norme clamorosamente superiore agli altri paesi europei.

Vedo con preoccupazione governi ed enti locali vantarsi di aver varato tante leggi: quasi che il fare leggi significhi automaticamente amministrare bene un paese!

Una volta per tutte, si deve semplificare l’amministrazione pubblica. E’ un problema strutturale che, da troppi anni, condiziona massicciamente la competitività del nostro paese.

Dobbiamo evitare che un malinteso concetto di spoil system nelle amministrazioni pubbliche generi dirigenti legati più ai politici che li hanno nominati che al servizio dei cittadini che di fatto li remunerano. Dobbiamo mettere con convinzione meritocrazia e produttività al centro delle carriere del servizio pubblico.

Basta con contratti i cui rinnovi costano sacrifici alle finanze pubbliche senza migliorare i servizi resi.

Occorre anche superare la logica del distruggere prima tutto quello che ha fatto il Governo precedente e poi avviare il proprio programma. I tempi della politica e quelli dell’economia corrono rapidamente. Se si perde tempo a distruggere, non ci sarà poi il tempo per costruire.

Basta con riforme tese solo a cambiare il nome del Ministro che le propone. Basta con le scuse sulle eredità lasciate dalle amministrazioni precedenti. E questo vale per ieri, oggi e domani.

Ci vuole una sana amministrazione che costruisca su quello che esiste e che dia il senso della stabilità e della continuità. Anche così si legittima un sistema bipolare. E bisogna superare questa mania di spezzettare il Paese e di creare nuove e pesanti amministrazioni con la pretesa di avvicinarsi al cittadino.

Delegificare e semplificare non significa creare altre amministrazioni. Al contrario: dovrebbe significare abolirne alcune. E invece vediamo crescere il numero delle province. Vediamo sopravvivere comuni di dimensioni ridicole.

Si pone in modo urgente il problema della governance istituzionale. A partire dalla chiarezza del rapporto tra amministrazioni centrali ed enti locali. Regioni, province e comuni hanno ampliato la sfera delle competenze ma non hanno interpretato finora in maniera significativa un principio di sussidiarietà verticale, né si è consolidata la modalità di raccordo con il centro e le sue attribuzioni.

Confindustria è contraria alle confusioni, alle sovrapposizioni e alla moltiplicazione dei costi, delle procedure e dei dipendenti.

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Soprattutto in momenti difficili come questi, le imprese si sentono parte integrante di questo paese: sono cittadine dell’Italia, nel senso che contribuiscono alla sua crescita economica e civile.

Non voglio qui rivendicarne meriti e risultati, che sono evidenti a tutti. Voglio invece sottolineare la nostra volontà di partecipare, attivamente e senza invasioni di campo, alla costruzione di un progetto Paese, oggi più che mai necessario. E’ un ruolo che ci siamo conquistati nel tempo.

L’Italia ha sempre avuto nella capacità di stare sui mercati esteri il suo punto di forza. E anche qui le cose non vanno bene. Negli ultimi dieci anni la quota di mercato a prezzi costanti delle esportazioni italiane su quelle mondiali si è ridotta di un punto (dal 4,8 al 3,8%), mentre Francia e Germania hanno rispettivamente mantenuto e aumentato il loro peso, pur avendo l’euro come noi.

E come sappiamo, altrettanto preoccupante è la capacità sempre minore di attrarre investimenti stranieri in Italia. Un problema che chiama in causa fattori strutturali diversi, tutti riconducibili all’efficienza e alla competitività del nostro sistema paese: dalle infrastrutture al costo del lavoro, dai tempi della giustizia civile al carico fiscale, normativo e burocratico che non ha eguali nel mondo occidentale.

L’Italia è negli ultimi anni stabilmente dietro non solo a Francia, Germania e Gran Bretagna, ma anche alla Spagna come paese destinatario di investimenti diretti esteri.

Le imprese italiane vogliono rispondere alle sfide internazionali con la loro capacità di innovazione.

La ricerca e l’innovazione sono la molla del progresso. Sono anche grande fonte di rischio. Lo sappiamo bene noi imprenditori, quando ci imbarchiamo in progetti nuovi e quando tentiamo strade che altri non hanno ancora percorso. Ma la capacità di rischiare è l’elemento che caratterizza il vero imprenditore.

Se non c’è rischio non c’è neppure innovazione. Per contenere il rischio le aziende possono utilizzare istituzioni finanziarie che sappiano valutare e condividere i nuovi progetti: i fondi di private equity, il venture capital, la Borsa.

Da noi questi strumenti sono ancora troppo deboli anche perché il sistema fiscale non li favorisce. In ogni caso, da soli non possono bastare.

Abbiamo in Italia un tasso tecnologico troppo basso. Abbiamo bisogno di aumentare il contenuto tecnologico e di innovazione dei nostri prodotti così da essere meno esposti all’imitazione, alla contraffazione, alla pura competizione sui prezzi.

E’ un compito nel quale le nostre piccole e medie imprese non possono essere lasciate sole. Per questo si deve incentivare la cooperazione tra università, impresa e strutture pubbliche in modo da realizzare veri e propri parchi tecnologici di ricerca industriale. Parlo di realtà che possono costituire l’autentico strumento di innovazione e di evoluzione del sistema industriale.

E’ bene su questo dire le cose come stanno. L’industria è la colonna portante della nostra economia, ma da troppo tempo è stata trascurata, quasi dimenticata, se non addirittura contrastata. E oggi se ne pagano le conseguenze.

Dobbiamo fermare questa deriva vicina al masochismo. Mettiamo l’industria al centro per dare slancio a un “nuovo manifatturiero” più globale, più specializzato, più tecnologico.

Importante è anche una buona legge fallimentare che circoscriva le responsabilità dell’imprenditore che è fallito, magari perché cercava di innovare. Se il rischio è la base dell’innovazione, il fallimento non doloso non può essere una condanna a vita.

L’Italia non ha oggi una buona legge sul fallimento: la delega approvata nelle scorse settimane dal Parlamento può essere un’occasione importante. Non deve andare sprecata.

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Signore e Signori,

non è più tempo di rinvii. L’ “emergenza economia” impone di agire. I dati congiunturali sono da tempo negativi e l’OCSE parla di Italia in recessione. Centri di analisi nazionali, istituzioni internazionali e stampa mondiale fanno ogni giorno a gara a descrivere le nostre difficoltà.

Forse ce lo siamo in gran parte meritato. Ma intanto la retorica del declino avanza.

I dati purtroppo sono veri e ogni giorno peggiorano. Non sono né di destra né di sinistra. Ma anche il tempo dell’analisi si è esaurito. Colpe esistono, tuttavia adesso è importante reagire perché nessun male oscuro condanna l’Italia.

Già altre volte ci siamo trovati in condizioni molto difficili e siamo sempre riusciti a invertire la rotta. La chiave della nostra salvezza non è il fatidico stellone. E’ il senso di responsabilità degli italiani, è la forza di reazione del nostro straordinario patrimonio di imprese, è la capacità di guida della politica che a volte riemerge.

Mai come oggi abbiamo bisogno di una politica alta, che assuma responsabilità, prenda decisioni e non si smarrisca in defatiganti dispute sul perimetro degli schieramenti, sia nel centrodestra che nel centrosinistra.

E’ proprio nei momenti difficili che si genera la capacità politica di fare scelte coraggiose. In questi casi il consenso segue e non precede le azioni. Non si possono accontentare tutti: lo diciamo al governo e alla maggioranza di fronte alle scelte di queste ore in materia economica e fiscale.

A maggioranza e opposizione dico: togliete la testa dalle urne elettorali. Fate scelte di rigore orientate allo sviluppo e alla competitività internazionale che sono le chiavi del nostro futuro.

Come cittadini prima, e come imprenditori poi, giudicheremo le scelte di chi si è assunto l’onere e l’onore di governare, ma anche il senso di responsabilità dell’opposizione di fronte alla gravità e all’urgenza dei problemi.

Dobbiamo agire in fretta senza l’ansia di vedere subito i risultati, operando per il bene del Paese. Dobbiamo avere il futuro come scenario per le nostre ambizioni e il presente per scegliere strumenti e azioni.

Dobbiamo scommettere molto di più sui giovani, nella società come nelle aziende.

Il corpo sociale del paese è sano. La coscienza civica degli italiani è solida, ma a volte stenta a manifestarsi, frustrata com’è dai troppi comportamenti furbeschi che i media ci riportano ogni giorno come vincenti. Abbiamo bisogno che esploda una coscienza civica diffusa. 37

Abbiamo un patrimonio di imprese che desta ancora invidia nel mondo. Siamo, tra i paesi industriali, quello dove il manifatturiero conta di più rispetto agli altri settori. In tutti i continenti veleggiano le nostre caravelle: medie imprese globali che operano su segmenti di mercato di alta gamma e specializzazione. I nomi italiani sono presenti in tutti gli angoli del pianeta e testimoniano del nostro saper fare.

Certo, le nostre imprese globali sono ancora troppo poche. Manchiamo di grandi gruppi. Abbiamo un settore dei servizi in gran parte asfittico e ancora troppo protetto. Abbiamo un contesto esterno alle imprese inefficiente. Abbiamo una pericolosa predisposizione alla burocrazia. Insomma, abbiamo un sacco di cose da fare. E’ arrivato il momento di farle.

Sta qui il senso della ricostruzione. Tocca alle forze migliori e più responsabili, tocca alla maggioranza e all’opposizione impegnarsi su cinque grandi fronti che richiedono interventi strutturali su cui ci giochiamo le nostre prospettive: scuola e sistema educativo, ricerca e innovazione, infrastrutture, concorrenza, semplificazione burocratica.

Io sogno un paese con più innovazione, più concorrenza, più solidarietà.

Un paese con una forte etica del mercato e un altrettanto forte etica del profitto.

Per ricostruire l’Italia ci vuole una guida politica e istituzionale, una classe politica con ambizioni di futuro e competenze elevate, con grande senso dello Stato. Per classe politica non intendo solo i partiti, ma anche le istituzioni, i corpi sociali, il mondo delle associazioni, le imprese e tutti coloro che non limitano il proprio agire al mero conseguimento di una pur legittima soddisfazione personale.

Questa è la classe dirigente di cui abbiamo bisogno. Una classe dirigente che temo, oggi, non si renda conto della drammatica situazione non solo dei conti pubblici ma, purtroppo, soprattutto dell’economia reale. E che invece deve avere chiara questa consapevolezza per compiere insieme le scelte nell’interesse dell’Italia di oggi e di domani.

Una classe dirigente che oggi ha di fronte una sfida ardua ma esaltante e che attorno a questa sfida sappia riscrivere un autentico patto fra i cittadini. Il patto fra tutti coloro che hanno a cuore il futuro del Paese.

L’Italia merita un futuro di qualità, orientato alla crescita e allo sviluppo. E’ il futuro dei nostri figli e delle nostre imprese. Ma è soprattutto il futuro del nostro paese, della nostra patria.

Riprendiamo slancio e coraggio.

Sappiamo cosa dobbiamo fare. La rivincita dell’Italia è possibile.

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